mercoledì 24 aprile 2013

IN SALA - "Qualcuno da amare", di Abbas Kiarostami


Forse un canonico tentativo di lettura di questo film lascerebbe delusi. Perché - è inutile negarlo - Qualcuno da amare non ha la forza dei grandi film di Abbas Kiarostami (dei capolavori, oserei dire) realizzati nell'arco di quel quindicennio che ha imposto il cinema iraniano all'attenzione della critica internazionale. Sto pensando a film come Dov'è la casa del mio amico (1987), Close-Up (1990), E la vita continua (1992), Il sapore della ciliegia (1997) e Il vento ci porterà via (1999), film - quest'ultimo - che rappresenta una sorta di turning-point all'interno della produzione artistica di Kiarostami.
E allora non ha senso - forse - ragionare ancora tenendo a mente quel modello di cinema, perché Qualcuno da amare ci conferma che a partire dal film immediatamente precedente, Copia conforme (2010), il cineasta iraniano ha tentato di aprire una nuova strada. Ed è forse il caso di provare a pensare a questi due film come a un dittico, nel tentativo di comprendere quali siano gli elementi costitutivi che ci portano a pensarlo come tale, quali siano i nuovi fuochi d'interesse del regista e - perché no - quali siano le permanenze e quali i mutamenti rispetto a quei capolavori già menzionati.

Come in Copia conforme, anche in Qualcuno da amare lo sviluppo dei fatti muove dall'incontro tra i due protagonisti. In entrambi i casi, tuttavia, è difficile poter parlare di una vera e propria "storia" in senso canonico, perché tali incontri - intesi come inizio di una relazione interpersonale - non si propongono come il motore di un'azione narrativa, ma sono essi stessi il fuoco d'interesse del regista per l'intera durata del film. Questo avveniva anche in alcuni film del passato, è vero, ma si trattava di relazioni di breve durata, che impegnavano i protagonisti per un arco di tempo limitato all'interno del film, come nel caso de Il sapore della ciliegia, oppure in maniera discontinua, a intermittenza, come ne Il vento ci porterà via, se si pensa alla relazione tra Behzad e il piccolo Puya che lo guida nel paesino curdo consentendogli di stabilire dei nuovi legami deboli con altri personaggi.
Negli ultimi due film, invece, i personaggi che si incontrano mantengono una relazione continuativa,  che - potremmo dire - nasce e si solidifica in un qui e ora che il film sembra chiudere in un'unità di tempo e di azione. Una relazione che è studiata da Kiarostami al microscopio, in vitro, con occhio scientifico, e con la morbosità di uno sguardo che vuole cogliere al suo interno anche le più impercettibili microvariazioni.


Quello che il regista sembra porre al centro del proprio discorso è soprattutto la complessità delle relazioni umane, la quale diventa - in queste sue ultime produzioni - l'elemento che mette in gioco il fattore tempo. Se nel suo primo cinema, infatti, il tempo era posto principalmente (e quasi esclusivamente) in relazione allo sguardo, e diveniva fondamentale per la lenta costruzione di uno spazio di visione, che si dispiegava davanti agli occhi dello spettatore a partire dai movimenti dei personaggi, ora sembrerebbe che tutti questi fattori siano messi in gioco per la costruzione di uno spazio che non è più eminentemente visivo, ma che si connota piuttosto come uno spazio di relazione, all'interno del quale si definisce l'identità dei personaggi (e in questo si può dire che Dieci [2002] sia stato un film precursore).

Eppure, in questi film, l'identità è divenuta qualcosa di assolutamente etereo. Qualcosa che si plasma davanti ai nostri occhi, ma che non raggiunge mai uno stadio che può dirsi definitivo. C'è come una sorta di reversibilità che rende plastiche le relazioni umane. E laddove in Copia conforme il gioco identitario era posto al centro del film - data anche la centralità cronologica della scena in cui le identità dei due protagonisti vengono stravolte -, in Qualcuno da amare tale discorso torna a più riprese, seppure in una forma meno eclatante, fino al travestimento messo in atto dal signor Takashi che si finge il nonno di Akiko agli occhi del suo fidanzato, per non dover rivelare la vera identità della ragazza.

Questo continuo sdoppiamento dei personaggi giustifica, sul piano visivo, l'ossessione per le immagini riflesse che trovavamo anche in Copia conforme. E questa ossessione modifica significativamente quella che è la funzione del fuoricampo rispetto ai film realizzati da Kiarostami negli anni novanta.
Se in quel caso, infatti, il fuoricampo era utilizzato per escludere e configurare delle forti negazioni all'interno dell'inquadratura, le quali richiamavano l'attenzione su un continuo processo di inclusione/esclusione che è (sempre e comunque) proprio del cinema, in questo caso esso diventa uno spazio ripetutamente accessibile in forma indiretta, riflessa: qualcosa che in ogni momento può entrare in relazione visiva con ciò che è in campo per alterare la composizione dell'inquadratura mediante l'inclusione di una presenza (fisicamente) assente o di una assenza (visivamente) presente.
Lo vediamo al termine della prima scena, quando la vetrata del bar crea delle evidenti sovrapposizioni interno/esterno, effetto questo che viene replicato poco dopo, quando il parabrezza del taxi su cui sta viaggiando Akiko si trasforma improvvisamente in un vero e proprio schermo sul quale scorrono le immagini delle luci e dei palazzi man mano che l'automobile percorre le strade di Tokyo, replicando così un effetto che era già presente in Copia conforme nella scena in cui i due protagonisti si muovono per le strade di Arezzo in automobile. Lo vediamo anche, infine, nel momento in cui Akiko si riflette nel televisore del signor Takashi, e diviene visibile in campo - a fianco all'anziano uomo - nonostante ella sia fisicamente collocata fuoricampo (effetto, anche questo, che era stato sperimentato a più riprese in Copia conforme).


Qualcuno da amare non è certo un film che scivola via. E' un film che ci ancora alle immagini e ce ne fa sentire il peso, costringendoci a sottostare a una dilatazione dei tempi che è sempre voluta, studiata, calibrata, ma - va detto - non sempre necessaria e talvolta quasi autoreferenziale. 
Forse Kiarostami avrebbe potuto mettere il punto prima, evitandosi (ed evitandoci) i venti minuti finali che rappresentano il punto più debole del suo film. 
Forse avrebbe potuto escludere alcune "ricorrenze stilistiche" che immediatamente vengono recepite come una firma autoriale, come un "marchio di fabbrica" del quale il suo cinema non ha più bisogno, dal momento che è molto più complesso ed eterogeneo di come (talvolta) vuole presentarsi e di come (troppo spesso) viene semplicisticamente raccontato. E questo film, pur nella sua imperfezione, ne è l'ennesima dimostrazione.



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