sabato 10 novembre 2012

FESTIVAL DI ROMA - "Aku no kyoten", di Takashi Miike


Inizio col chiedermi, innanzitutto, cosa scriverei su questo film se dovessi prescindere dal nome del regista, se mi ritrovassi cioè a dover esprimere un parere senza sapere che dietro Aku no Kyoten (titolo internazionale Lesson of Evil) c'è la mano di Takashi Miike, il cineasta che forse più di tutti riuscì a "colpirmi allo stomaco" con il suo mediometraggio Imprint, episodio della serie televisiva Masters of Horror (censurato prima, e distribuito solo successivamente nell'edizione dvd).
E forse allora è proprio partendo da Imprint, e ragionando per differenze (o addirittura per opposizioni), che riuscirò a venire a capo - in corso d'opera - della mia personale opinione su questo film.

Prima però, è forse il caso di delineare le principali dinamiche narrative di Aku no Kyoten.
Il film si può facilmente suddividere in due parti, due macro blocchi che, più che susseguirsi, finiscono per confluire l'uno nell'altro. Dopo un breve ed inquietante prologo, che ci lascia supporre un parricidio avvenuto per mano di un ragazzino di quattordici anni tra le mura domestiche, tutta la prima parte del film ci presenta le dinamiche interne ad una scuola superiore e, in particolare, la crescente affermazione del giovane professor Hasumi, stimato da molti colleghi e amato dagli studenti, grazie soprattutto alla sua fermezza e alla capacità di risolvere problematiche piuttosto complesse (alcuni casi di bullismo, ma anche un caso di abusi sessuali).
Man mano che l'oscuro passato di Hasumi viene a galla, grazie soprattutto alle indagini sul suo conto condotte dal più anziano prof. Tsurij, il tono del film cambia, e con esso anche la nostra percezione del protagonista, e prende il via una progressiva comprensione del prologo che ci porta a riconoscere ora, nello spietato assassino visto solo di spalle, il giovane Hasumi.
Da questo momento in poi, assistiamo per l'intera seconda parte del film (70 minuti circa) al delirio di follia che conduce Hasumi a massacrare uno a uno tutti i suoi studenti, dopo essersi liberato del prof. Tsurj impiccandolo in una metropolitana e facendo credere ad un suicidio. 

Non ci sono dubbi, dunque, sul fatto che questo film si proponga come una riflessione sulla violenza. Riflessione condotta da un regista che già in precedenza si era confrontato con questo complesso tema, a cui il cinema giapponese - soprattutto negli ultimi venti anni - ha saputo guardare a più riprese, restituendone di volta in volta un ritratto peculiare, ma quasi sempre veicolato attraverso un coinvolgimento fisico/corporeo ed emotivo dello spettatore, all'interno di opere stilisticamente differenti  (Tsukamoto non è Miike, che a sua volta non è Kitano o Fukasaku), ma attraversate da un comune sottofondo di penetrante angoscia. 
E torniamo allora al già citato Imprint, il cui apice drammatico è rappresentato sicuramente dalla scena in cui la protagonista viene legata, torturata e umiliata dalle donne del bordello in cui anche lei vive. Una scena che rappresenta un momento di completa sospensione narrativa in cui la performance prende il sopravvento per metterci di fronte al totale e irreversibile farsi corpo dell'immagine. Siamo costretti, lentamente e inesorabilmente, a guardare le tremende violazioni perpetrate sul corpo dell'indifesa protagonista e a sentire letteralmente su di noi la profonda umiliazione a cui viene sottoposta, il cui epilogo non può che concretizzarsi nell'improvviso e incontrollato fuoriuscire delle urine mentre ella è appesa a testa in giù, come a ricongiungere in un solo "gesto" il suo stato corporeo con il sentimento di umiliazione e disagio che la avvolge (sottolineato peraltro, con drammatica ironia, da quell'esitante "scusate" che fuoriesce dalla sua bocca completamente trafitta da lunghi spilli di ferro).

Stacco. Veniamo ad Aku no kyoten
Dov'è finito il corpo? E dov'è quello stato di angoscia che dovrebbe pervaderci nel vedere dei ragazzini (non dimentichiamo che le vittime  della follia di Hasumi hanno appena 17 anni) massacrati uno a uno a colpi di fucile? Non c'è angoscia, non c'è tensione, non c'è (forse) neppure una profonda compassione nei loro confronti. Perché?
L'impressione è che la risposta a questa domanda non risieda nell'ipotesi che il film sia "sfuggito di mano" al regista. Sembra esserci piuttosto una lucida consapevolezza dietro questo tipo di approccio stilistico e narrativo adottato da Miike.
La tensione è eliminata dal processo di ripetizione: un colpo, un fiotto di sangue e i corpi vanno giù. Uno, due, cinque, dieci e così via, tanto che, da un certo momento in poi, il dubbio circa la sorte della prossima potenziale vittima si trasforma in assoluta certezza.
Contemporaneamente, Miike sembra adottare uno sguardo oggettivo, freddo e distaccato nei confronti di questo rituale di morte; uno sguardo che sembra essere quasi testimoniale e per nulla implicato. Il regista mette in atto una serializzazione della morte che può infastidire, ma che non arriva mai davvero a coinvolgere.

Apro una parentesi che richiuderò immediatamente, per evitare di suggerire (erroneamente) l'idea di connessioni e parallelismi che potrebbero risultare infondati. Guardando questo film mi chiedevo cosa può dirci sull'oggi, sul nostro rapporto con la rappresentazione della violenza e della morte. Mi sono tornati così alla mente i fatti e le immagini della strage nella scuola di Beslan, e tutta la difficoltà per le televisioni di restituire "adeguatamente" in quei giorni del settembre 2004 l'orrore e l'angoscia suscitati dal massacro di duecento bambini per mano di un commando di terroristi ceceni. Pietro Montani ha parlato, riferendosi alle immagini televisive che circolarono in quei giorni, di un'esigenza testimoniale che si fondeva (e si confondeva) inadeguatamente con la necessità di una mediazione estetica mirata a restituire, attraverso l'uso di ralenti e colonne sonore dal tono solenne, tutta l'enormità di quel dramma, senza riuscirci (come ovvio) e provocando quasi un senso di fastidio nello spettatore.

Miike sfugge a tutto questo, non c'è dubbio. Sfugge ad ogni sorta di drammatizzazione e di spettacolarizzazione.
E allora resta in piedi l'interrogativo su che tipo di sguardo sia quello che sceglie di adottare. Non voglio cedere al pensiero di uno sguardo compiaciuto che aspirerebbe ad una sorta di "contemplazione sadica". Non c'è neppure, d'altro canto, quella edulcorazione della morte in stile tarantiniano (lo dico, dato che all'uscita dalla sala il parallelo con Kill Bill andava per la maggiore). C'è semmai, in Miike, la necessità di rivelare tutta la "banalità" (in senso arendtiano) che può celarsi dietro il gesto metodico e distaccato di Hasumi. La freddezza con cui contempliamo è forse l'unica chiave d'acceso allo stato di psicopatia (e dunque di incapacità empatica) che caratterizza il protagonista.
Forse è qui la chiave di volta nell'interpretazione della scelta di Miike. L'unica scelta, probabilmente, che possa renderci quanto più possibile partecipi dello stato mentale di Hasumi.
Se così fosse, se la  mia lettura si rivelasse fondata, l'obiettivo di Miike potrebbe dirsi raggiunto. Certo a costo di un film che non potrà essere annoverato tra le opere più riuscite di questo regista.


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